Di animal welfare, ministeri e gabbie dorate – Farro&Fuoco

Riceviamo da Farro&Fuoco, condividiamo e pubblichiamo:

Di animal welfare, ministeri e gabbie dorate

E’ di circa un mese fa la notizia che la regione belga della Wallonia avrebbe intenzione di istituire un Ministero che si occuperà esclusivamente di benessere animale, chiamato anche animal welfare. Perché creare questa nuova carica e utilizzare questo nome quando già da tempo esistono in materia direttive (come la direttiva 98/58/CE del Consiglio Europeo del 20 luglio 1998) e leggi fatte applicare in ogni paese membro dell’Unione Europea?
Preferiamo scartare subito la risposta per cui saremmo in presenza di un sincero interesse per le vite di animali non umani e, dunque, di un passo importante per la futura rispettosa convivenza tra animali in società senza sfruttamento alcuno; una risposta che rischia di essere ingenua, se non complice, perché lo sfruttamento esiste anche grazie all’appoggio della politica istituzionale.


Una risposta che crediamo più attenta guarda a questa nuova carica come al tentativo del governo wallone, inteso come un qualsiasi sistema di potere, di dotarsi di corpi formali di mediazione e decisione col fine di gestire e determinare lo sviluppo futuro della questione animale. Una mediazione tra una serie di soggetti umani e non umani, posti in diverse posizioni di potere/sfruttamento, che avrà il compito di mantenere questo sbilanciamento già esistente e che, dietro a prevedibili retoriche occupazionali e prescrizioni salutiste, dovrà garantire ai soggetti di mercato interessati (tutti, dall’alimentare all’intrattenimento, dall’abbigliamento alla ricerca scientifica) la possibilità di proseguire nella loro ricerca di profitto.
Tale carica conferisce all’istituzione il ruolo pubblico di soggetto decisore, permettendo alla classe politica che di volta in volta occupa quella carica di prendere parola sul tema. In questo modo questa avrà la possibilità di determinare l’agenda di governo, di attirare a sé l’attenzione mediatica e dell’opinione pubblica, di rinforzare il meccanismo della delega, di delegittimare, silenziare e reprimere il dissenso.
Accanto e contemporaneamente a questo ambito, a livello psicologico il politico di turno cercherà di presentarsi a ognuno dei cittadini come una persona “buona”, poiché “bontà e buon cuore” vorrebbero essere i significati morali propagandati dalla carica che occupa.

Riformulando i concetti sopra espressi, la scelta del governo wallone si rivela in linea con quella ampia strategia comunicativa molto in voga oggi che avvicina mondo politico e imprese di mercato: l’utilizzo dell’immaginario legato al concetto di “benessere animale”, e, più in generale, dell’amore verso gli animali, come strategia retorica/simbolica e di marketing per spingere la propria carica politica -in Italia il culmine venne raggiunto dall’allora Onorevole Michela Vittoria Brambilla- oppure per vendere il proprio logo o i propri prodotti sul mercato -la lista delle società/imprese di chi si professa attento al “benessere animale” è lunga e paradossale, tanto da comprendere COOP Italia, Amadori e McDonald’s, società che per questo loro “impegno” hanno vinto premi. Un fenomeno che permette ad aziende e istituzioni politiche di andare avanti di pari passo all’interno dell’area semantica espressa dalle parole “animal welfare” in cerca di riconoscimento e legittimità verso il rispettivo target di riferimento: il corpo elettorale e il corpo consumatori.
Focalizziamoci, per esempio, sull’aspetto dell’alimentazione. E’ sotto gli occhi di tutti come negli ultimi anni un numero crescente di persone, chi per etica, chi per salutismo, chi per ambientalismo, abbia cominciato a interessarsi alla vita e alla morte degli animali che si ritrovano conditi e spezzati nei loro piatti: una popolazione che, guardata attraverso determinate lenti, non è altro che una nuova fetta di mercato, un po’ più scrupolosa, da intercettare e non farsi sfuggire, ma anzi da rassicurare e fidelizzare attraverso strategie sottili e ben studiate.

Così, vere e proprie fabbriche di animali e allevamenti che fino a ieri avremmo chiamato intensivi, che rincorrono tempi di crescita e morte degli animali dettati dal business più sfrenato, hanno cominciato a costruire e a dotarsi di un immaginario per i loro acquirenti, rappresentando un mondo alternativo per cui è possibile sfruttare, uccidere e poi consumare in modo etico animali liberi, sani e felici, guadagnandoci oltretutto in salute e gusto. Pagine pubblicitarie e spot televisivi si sono riempiti di galline che razzolano nell’aia, mucche felici nei prati con i loro vitellini accanto, maiali allegri e soddisfatti. Una facciata che copre una realtà ben diversa, fatta di gabbie strettissime, di animali che vivono sopra le proprie deiezioni e i corpi dei propri compagni morti per lo sfinimento delle condizioni di prigionia, fatta di antibiotici, di amputazioni, di mattatoi.

Nella certosina costruzione dell’illusione collettiva creata dagli uffici marketing di queste società non è possibile non rilevare l’aspetto inquietante di come siano state cinicamente studiate le richieste e le istanze di chi invece vuole abbattere e mettere fine allo sfruttamento degli animali. E’ così che all’interno delle dichiarazioni di intenti di queste aziende in materia di benessere animale si parla di “vita degna di essere vissuta”, “esseri senzienti”, “necessità etologiche” e via di questo passo empatico, per poi però far diventare, all’interno della stessa frase, questi rispettabilissimi soggetti di una vita dei “prodotti” e “ingredienti” con determinate “caratteristiche organolettiche”.
Tali ossimori concettuali sono presenti allo stesso modo all’interno di leggi che regolano tempi di riproduzione, crescita e morte. Lo si comprende, ad esempio, leggendo un passo del Ministero della Salute italiano quando, parlando del benessere degli animali da reddito, alla voce macellazione si trova: “La protezione degli animali durante la macellazione o l’abbattimento è una questione di interesse pubblico che incide sull’atteggiamento del consumatore nei confronti dei prodotti agricoli” (http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?lingua=italiano&id=2085&area=sanitaAnimale&menu=benessere).
Si inizia dalla parola “protezione”, si passa attraverso “macellazione o abbattimento” e si chiude con “prodotto agricolo”: lo svuotamento e la risemantizzazione di parole e pensiero sono evidenti.

Alla luce di tutto questo c’è da chiedersi se leggi e trattati che riconoscono gli animali come esseri senzienti mentre al tempo stesso ne decretano tempi e modalità di schiavitù e morte siano vittorie o sconfitte; così come leggi che parlano di maltrattamento e che poi derogano tutte quelle situazioni che potrebbero intaccare gli aspetti economici, come abbiamo visto nella legge italiana del 2004 in materia di crudeltà sugli animali (http://www.camera.it/parlam/leggi/04189l.htm). Anche qui si riconosce all’animale lo status di soggetto, ma poi si continua ad usarlo come oggetto.
E’ forse una vittoria la direttiva europea, per fare un altro esempio, sul benessere delle galline ovaiole che passano da gabbie con uno spazio per individuo da meno di un foglio A4 a poco di più? Le galline continueranno ad essere richiuse, debeccate, sfruttate fino allo sfinimento per poi finire in cassonetti dell’immondizia o in gustose polpettine arricchite di additivi alimentari.
E ancora: che senso può avere la definizione nel trattato di Lisbona del 2009 degli animali come “esseri senzienti”, delle cui esigenze i diversi settori dello sfruttamento animale dovrebbero tener conto? Se le parole avessero un senso compiuto, a rigor di logica lo sfruttamento dovrebbe allora essere vietato e perseguito, trovandoci di fronte a “esseri senzienti” e al loro benessere.

Il pericolo molto concreto è, infatti, che attraverso questi cambiamenti apparenti si anestetizzi il sorgere di qualsiasi dubbio etico da parte di cittadini e consumatori. Credere al fatto che ci siano leggi che si interessano al benessere animale e ministeri che si prendono cura e regolamentano al nostro posto la vita e la morte può mettere a tacere qualsiasi preoccupazione, rassicurare e permetterci di volgere con fiducia il nostro pensiero ad altro.
Non è pensabile nessun passaggio intermedio né che queste proposte possano essere reali e sincere aperture verso la liberazione degli animali. In questo modo non si fa altro che indorare e mascherare le loro gabbie fino a renderle invisibili agli occhi del consumatore; e una volta fatte sparire dalla vista e dopo aver insonorizzato le grida dei mattatoi attraverso premi fittizi assegnati alle aziende da associazioni pseudo animaliste (come http://www.ciwf.it/) e titoli di leggi di facciata come quelle citate sarà ancora più difficile abbattere queste sbarre ed eliminarle definitivamente. Perché gabbie e morte ci sono ancora, ma queste spariscono “a terra” o “all’aperto”, dietro la retorica, e la macellazione diventa umanitaria, sorvegliata da istituzioni che si prendono cura dei condannati a morte. E si potrà parlare di carne felice.
Non è raccogliendo piccole riforme nel diritto concesse dal sistema specista dello sfruttamento animale che si arriverà alla libertà: queste non sono altro che stratagemmi per dare nuove vesti e nuova energia a un settore che non ha nessuna intenzione di fermare i camion verso i mattatoi, di chiudere i laboratori di vivisezione o di liberare dalle catene i prigionieri di circhi e zoo. Non è possibile coniugare il benessere degli animali e il mercato su cui si basa il loro sfruttamento, perché l’unico benessere reale è la libertà che metterebbe fine a qualsiasi forma di schiavitù.

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—> Dossier critico di Farro&Fuoco – Alimenta il conflitto su Expo